L'abitudine di vivere dentro un sogno

Una delle esperienze più interessanti che si possano fare sta nel risvegliarsi da un sogno e continuare a vivere nel sogno. Si tratta di un’esperienza sfuggente eppure preziosissima: ci troviamo nel nostro letto, in una mezza veglia dai contorni sfumati - e possono esser passati diversi anni dal tempo rappresentato nel sogno - ma continuiamo a pensare “da dentro” il sogno. Ci poniamo una domanda che ha a che fare con il tempo del sogno e proviamo  a rispondere dal tempo della veglia, poi realizziamo che “era solo un sogno”. E generalmente ci riaddormentiamo, malinconici se il sogno era un bel sogno, soddisfatti di noi e della nostra vita “reale" se il sogno era un brutto sogno. Il valore di una simile esperienza potrebbe stare nel considerare quanto la nostra vita sia vissuta alla luce dell’abitudine.

I pensatori indiani particolarmente attrezzati nel descrivere le spirali della māyā, l’illusione, ci hanno lasciato un avvertimento che siamo chiamati a raccogliere se abbiamo a cuore la nostra evoluzione. Hanno detto: attenzione, la nostra esistenza si gioca su tre livelli, vale a dire la veglia, il sogno e il sonno profondo. Poi hanno affermato l’esistenza di un quarto livello che si si chiama appunto “il quarto”. Non ha nome, ed è giusto che sia così visto che è davvero l’unico livello che conti davvero. Ce lo ricorda il Tao-te-ching:

“Il Tao di cui si può parlare/non è L’eterno Tao/il nome che può essere nominato/non è l’eterno nome”.

D’abitudine guardiamo alla nostra vita dall’angolo visuale dello stato di veglia: riteniamo reali gli oggetti densi e duri poiché sappiamo che se qualcuno li usa come oggetti contundenti contro di noi proveremo dolore. Un muro è un muro poiché non lo puoi attraversare ed è l’abitudine che ci evita testate dolorose se proviamo l'impresa. L’abitudine a considerare non trapassabile la densità ci salva dal dolore ingiustificato. Ma la stessa abitudine che ci salva in taluni casi, ci condanna in altri.

Ad esempio - levandoci dall’abitudine - potremmo guardare la nostra vita dall’angolo visuale del “quarto”; allora vedremmo che la vita “reale” è una cascata progressiva di densa materialità, dal sonno profondo (ove i sogni sono assenti) allo stato di sogno, per giungere infine allo stato di veglia. E qui sta la preziosità di quell’esperienza sfuggente che citavo all’inizio: se risvegliandoci nel nostro letto continuiamo ad arzigogolare intorno alle vicende del sogno, potremmo chiederci se lo stato di veglia - aldilà di quei pochi istanti di “confusione” - altro non sia che la prosecuzione del sogno. A questo allude un altro grande classico del taoismo, il “Chuang-tzu":

La meditazione è la sola medicina. La contemplazione è la sola comprensione. La mente fiduciosa è la sola in grado di ricordare l’estasi di quel minuscolo nuotatore che fluttuava libero e fuori dal tempo, nello spazio amniotico dell’istante

“Una volta Chuang-tzu sognò che era una farfalla svolazzante e soddisfatta della sua sorte e ignara di essere Chuang-tzu. Bruscamente si svegliò e si accorse con stupore di essere Chaung-tzu. Non seppe più allora se era Tzu che sognava di essere una farfalla o una farfalla che sognava di essere Tzu”.

E dalla Cina taoista il ritorno all’India dello yoga: Swāmī Rāmā diceva che se ho cinquant’anni significa che sogno lo stesso sogno da cinquant’anni. La “confusione” dura più di qualche istante, purtroppo. Il propellente che spinge avanti questo sogno durevole si chiama abitudine. E la forza che l’abitudine possiede è causata dal trauma che ogni essere umano incontra venendo al mondo.

Si nasce urlando, terrorizzati, strappati alla gioiosa fluttuazione nel liquido amniotico. Cadiamo nella mani di un nostro simile - laureto in Medicina - che se non urliamo abbastanza ci molla un ceffone! Un vero e proprio trauma. E levarsi un trauma è difficile, sappiamo tutti quanto sia difficile... Nel corso della nostra vita ci proveranno psicologi, filosofi, maestri spirituali e guru. E tranne rari casi di risveglio alla buddhità intrinseca sarà uno spreco di tempo e di denaro. Perché l’abitudine è più forte di Freud e Jung messi assieme, più forte di Platone e Aristotele, più forte degli Yogasūtra di Patañjali. Potremo trovare conforto momentaneo, potremmo aprire l’acqua dell’inconscio innanzi a noi con una sbracciata potente (andando in Himalaya) poi l’acqua si richiuderà alle nostre spalle (quando torneremo dall’Himalaya). Si impara a nuotare, non a comprendere l’acqua nella quale nuotiamo.

Tutto inutile quindi? La liberazione è una chimera impossibile da raggiungere in questa vita? No, non è impossibile, è difficile: perché non basta accendere due bastoncini d’incenso e recitare il Grande Mantra. Perché “Prendere Rifugio” non significa parcheggiare la propria anima nel grande garage buddhista. Generosi, ma imprecisi, tentativi di liberazione conducono più a fondo nell’illusione e portano poi a concludere amaramente che sia impossibile risvegliarsi e affrancarsi dal sogno. Ma non esiste niente di più errato dell’equazione difficile = impossibile.

Una cosa difficile resta difficile, magari anche molto difficile, come nel caso dell’illuminazione. Ma non è impossibile. Per realizzare lo scopo occorre per prima cosa calibrare la sostanza di cui sono fatti i nostri pensieri e distillare la corretta inclinazione verso le cose. Occorre considerare lucidamente il cuore del problema che desideriamo risolvere. Potremmo prendere ad esempio la vicenda di Tiziano Terzani che si aggirava per l’Asia alla ricerca di un rimedio contro il tumore, per poi accorgersi che il vero problema non era la malattia, ma la mortalità. Allo stesso modo potremmo considerare come il nostro problema non siano le cose per come ci feriscono, le memorie per come ci tormentano, le persone per come non ci comprendono. Al cuore-radice del nostro problema sta un equivoco, grande come una casa: prendere ciò che è irreale, un sogno, per la realtà. Continuare a guardare la nostra esistenza dalla focale del trauma, cioè dallo stato di veglia, vale a dire dall’abitudine.

Levarsi l’abitudine è come cavarsi un dente, si tratta di un evento oggettivamente sgradevole. Ma se a condurre l’operazione è un Grande Medico come il Buddha, allora anche il dolore trova una sistemazione coerente entro la galleria delle immagini assemblate nel corso di una vita. La meditazione è la sola medicina. La contemplazione è la sola comprensione. La mente fiduciosa è la sola in grado di ricordare l’estasi di quel minuscolo nuotatore che fluttuava libero e fuori dal tempo, nello spazio amniotico dell’istante. Tutto il resto è sogno, vagito, trauma. In realtà esiste solo Quello, senza nome, il Quarto. Potremmo iniziare a guardare la vita gioiosamente e pienamente da lì.

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Scacco (matto?) ai pensieri in tre mosse meditative